Il Papa Urbano IV e il Miracolo di Bolsena
di Raffaele Tamiozzo
Nel 1261 saliva al soglio pontificio, con il nome di Urbano IV, proprio Jacques Pantaléon l'arcivescovo di Liegi e due anni più tardi - nel 1263 - un sacerdote boemo, Pietro da Praga, che da tempo nutriva perplessità e scetticismo sulla transustanziazione; mentre stava celebrando la messa nella chiesa di Santa Cristina a Bolsena nuovamente assalito dal dubbio che lo perseguitava, vide dall'Ostia consacrata stillare copiosamente sangue, che bagnò il corporale, i lini liturgici e i marmi del pavimento.
Ecco come possiamo ricordare l'evento sintetizzando l'aulico linguaggio di antichi testi ottocenteschi. Il sacerdote celebrava il divino sacrifizio nella chiesa, all'altare chiamato, per la sua struttura, delle quattro colonne e, per la divozione che il luogo recava con sé, l'altare delle quattro pedate. L'edifizio infatti, già sacro agli idoli, sorgeva a mo' di spelonca nel cavo di una montagna: un piccolo tempio formato da quattro colonne isolate, conteneva e sormontava l'altare, il quale era un masso di durissimo porfido, le cui miracolose impronte ricordavano la fede suggellata con il sangue della vergine e martire Santa Cristina; era il macigno che il padre Urbano, ufficiale dell'imperatore in Bolsena, aveva fatto legare al collo della figlia, giovinetta di 12 anni, quando l'aveva gettata nel lago vicino. Il pesante marmo, per miracolo divino svincolatosi dalla innocente fedele e nuotando sopra le acque, riportò libera al lido la martire che vi era salita e lasciovvi impressa, come in molle cera, le proprie pedate. Quello ricordato è soltanto uno degli episodi che hanno caratterizzato la vita sofferta di Santa Cristina, imprigionata giovinetta in una torre per ordine del padre pagano, che voleva contrastare in tutti i modi la sua fede cristiana e che, prima di imprigionarla, la fece percuotere e flagellare: ma tre angeli vennero inviati dal Signore a consolarla della prigionia. La tradizione parla, infatti, di innumerevoli altri tormenti cui la santa venne sottoposta dai giudici ai quali il padre la aveva consegnata: oltre alla lastra di pietra legata al collo, essa subì la graticola arroventata, la fornace surriscaldata, il morso di serpi velenose, il taglio delle mammelle; ma ella sopravvisse a tutti questi supplizi finché non venne uccisa come una innocente cerbiatta, trafitta da una freccia scoccata dal Prefetto Giuliano
In tale luogo, dunque, la onnipotenza operatrice dei miracoli, come rese molle e galleggiante il porfido (o forse più propriamente la roccia basaltica, data la qualità del terreno tipica della zona di Bolsena), cosi ben poteva transustanziare il pane e il vino e celare sotto le loro apparenze la santa umanità di Cristo presente nel suo essere sacramentale.
Allo spezzare dell'Ostia da parte del prete boemo sopra il calice, questa, tranne un pezzetto (quello che si immerge nel calice stesso), gli si muta fra le mani, gli appare di carne e getta vivo sangue, che spruzza e bagna il corporale sottoposto; il sacerdote resta sbalordito e immobile, poi tremante e confuso adora il grande mistero di cui è stato protagonista e testimone e, piangendo per la pochezza e debolezza della sua fede, raccoglie quanto può di quel sangue e si affretta a terminare l'ufficio liturgico.
Contemporaneamente cerca di nascondere quanto è avvenuto piegando e ripiegando il corporale, ma senza successo: le macchie del sangue miracoloso vengono accresciute dalle pieghe moltiplicandosi con esse; anzi, nel ritornare in sagrestia, altre gocce del miracoloso sangue gli cadono su cinque diverse lastre di marmo bianco del pavimento. Le macchie di sangue presentano tutte una figura duomo, I'immagine del Salvatore flagellato e coronato di spine, come è stato possibile distintamente intravedere anche successivamente all'episodio; di queste cinque pietre una fu donata al parroco Porchiano nella diocesi di Amelia; le altre quattro furono collocate ab antiquo, due davanti all'altare delle quattro colonne e le altre due ai lati della lapide di marmo rosso posta dirimpetto a quell'altare poco tempo dopo il miracolo, a futura memoria per i posteri. Munite di un cristallo e serrate a chiave, rimasero nel posto indicato fino alla costruzione nel 1675 della chiesa di Orvieto contigua alla cripta di santa Cristina, dove vennero collocate tre nel muro dietro l'altare maggiore, detto perciò l'altare delle lapidi, sotto un quadro commemorativo del miracolo e la quarta dietro l'altare delle quattro colonne; questa veniva portata ogni anno nella processione del Corpus Domini munita di un particolare congegno per potervi inserire l'Ostia consacrata.
La fama del prodigio tosto si diffuse e il sacerdote testimone, Pietro da Praga, fortemente turbato, si recò a Orvieto, dove soggiornava temporaneamente il Santo Padre Urbano IV, allontanatosi da Roma per via di accesi tumulti popolari, anche a quei tempi piuttosto frequenti.
Urbano IV restò colpito grandemente dal racconto del sacerdote e inviò subito a Bolsena il vescovo di Orvieto, imponendogli di portagli ogni cosa relativa al miracolo. Lo stesso Papa con il suo seguito va poi incontro al Vescovo; i due si incontrano sul ponte di un torrente denominato Rivo chiaro dove il Papa Urbano IV, inginocchiatosi per terra, riceve nelle sue mani i pannilini intrisi del prodigioso sangue e con grande fervore di pietà li reca in processione fra la moltitudine dei fedeli orvietani, commossa e turbata in deposito nella cattedrale di Orvieto e con ogni cura li ripone nel sacrario. In memoria del miracolo gli abitanti di Orvieto edificarono in luogo eminente una superba basilica che sostituì l'antica cattedrale e che venne chiamata Duomo: a benedirla e a porre la prima pietra sarà nell'anno 1290 il Papa Nicolò IV. Attualmente in un gotico tabernacolo marmoreo è custodito il celebre reliquiario (opera del senese Ugolino di Vieri che lo eseguì nel 1338, autentico capolavoro dell'oreficeria italiana, in metalli preziosi e smalti con scene della vita di Cristo); il reliquiario, che viene esposto solo nelle festività della Pasqua e del Corpus Domini, racchiude il corporale macchiato di sangue stillato dall'Ostia durante la messa celebrata a Bolsena nel 1263 dal prete boemo Pietro da Praga.
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