I luoghi del Gran Tour

 
 

Nel settecento il Grand Tour è ormai un fiume rigoglioso (...). La conoscenza di arte e letteratura, storia antica e moderna, musica e teatro, costumi e folklore, città e paesi diversi dalla propria patria sono i motivi che spingono giovani aristocratici, borghesi e benestanti della middle class, studenti sovvenzionati con borse di studio a intrapendere il viaggio.
Cesare de Seta


Itinerario proposto da Fabio Ronci


Il Grand Tour in Italia
Il termine Grand Tour appare per la prima volta nel 1670 all’interno del Voyage of Italy, or a complete Journey through Italy dell’inglese Richard Lassels ma gli inizi sono sporadicamente rintracciabili già nel XVI° sec. nei viaggi di Montaigne.
Il vero e proprio boom si avrà però nel corso del ‘700, ed abbraccerà tutto il secolo, estendosi poi fino alla metà dell’800. Verso la fine del ‘700 ogni uomo di cultura europeo che si rispettasse doveva aver compiuto almeno un viaggio in Italia, paese ricco di testimonianze del passato classico (greco e romano), di paesaggi bucolici e sempre vivacizzato da feste, spettacoli teatrali e musicali.
Nel 1738 e 1748 gli archeologi avevano riportato alla luce Ercolano e Pompei, veri e propri musei all’aria aperta che attraggono studiosi e curiosi da tutto il mondo come il tedesco Winckelmann, il quale descriverà all’Europa intera le nuove scoperte (1756), invogliando altri viaggiatori a mettersi in viaggio verso il sud della penisola.
Nonostante le strade dissestate e i pericoli, come il brigantaggio, nessuno vuole rinunciare all’esperienza unica del Grand Tour.

In Umbria, lungo la Flaminia
L’Umbria, terra di transito quasi obbligata lungo la strada che conduce a Roma, riveste un ruolo centrale in tutti gli itinerari. Ciò giova indiscutibilmente anche alla sua fama nel corso del Grand Tour.
Il pittoresco ed il sublime, alla cui ricerca si mettono i viaggiatori, sono due aspetti di una certa estetica del paesaggio sicuramente presenti in Umbria: dalla bellezza degli Appennini allo scenario naturale “bello e terribile” offerto dalla Cascata delle Marmore, dai paesaggi rilassanti dei monti di Colfiorito alle testimonianze del passato romano a Narni e Carsulae.
Il passaggio nell’Umbria meridionale, lungo la Via Flaminia, tocca dapprima Foligno e quindi Spoleto, l’incontro con il sublime però avviene indubbiamente all’arrivo in Valnerina: i paesaggisti e gli scrittori si dilungano a parlare del paesaggio quasi “alpino” che li accoglie all’imbocco della gola del Nera, e dei piccoli paesi, come Papigno, che ne costellano il cammino.

Il fragore della cascata
La Cascata delle Marmore è uno degli spettacoli più affascinanti e grandiosi della natura: una massa enorme di acqua spumeggiante precipita in basso nella stretta valle del Nera con tre salti successivi, per 165 metri, un vero spettacolo di luce e di suoni.
Le acque del fiume Velino furono fatte deviare dal loro corso in modo artificiale già nel 271 a.C. dal console romano Manlio Curio Dentato, allo scopo di regolamentare il corso dello stesso fiume nella piana reatina. Da quel momento in poi molti lavori interessarono quest’opera di ingegneria idraulica allo scopo di migliorarne lo sfruttamento anche per scopi industriali: si può infatti affermare che il sistema Nera-Velino sia alla base della moderna industrializzazione della città, che sfruttò al meglio la forza idrica per produrre elettricità già alla metà dell’800.
Il salto è osservabile dal basso, nel piazzale antistante il salto dell’acqua, e dall’alto, dal Belvedere superiore, grazie ad una stradina che conduce verso la parte più alta della cascata: da questa posizione lo spettacolo è sicuramente magnifico.
Il tedesco J.G. Seume così descrive il paesaggio agli inizi dell’800: “...mi si aprì il cuore quando, alcune miglia prima di Terni, (...) mi si aprì la valle del Nera, e di nuovo mi si spalancò davanti agli occhi il paradiso...”.
Tutti gli artisti ne danno una descrizione, chi con le parole e chi con la pittura: notissime sono sotto questo punto di vista le opere del francese Corot, ma anche alcuni scrittori si dilettarono a farne degli schizzi, sebbene, nelle parole del canonico tedesco F.L. Meyer nel ‘700: “... invano la pittura ha tentato di rendere queste grandi scene della natura, di cui il movimento e la vita sono l’essenza..”
Da Hans Christian Andersen a Wilhelm Heinse, da Chateaubriand a De Sade, da Goethe fino a Lord Byron, praticamente tutti gli scrittori che visitano la Valnerina rimangono annichiliti dallo spettacolo visivo (ed anche acustico, per cui il fragore dell’acqua che cade resta impresso almeno quanto la sua immagine) e non possono fare a meno di descriverne l’effetto.
Nota in tutto il mondo è l’ode di George Byron, inclusa nell’opera Childe Harold’s Pilgrimage, ma il poeta inglese non si è limitato ad elogiare la cascata, egli ha inserito nel suo percorso anche il Lago di Piediluco, ed a questo riguardo ecco le sue parole: “..è singolare che le due più belle cascate d’Europa siano artificiali, quella del Velino e quella di Tivoli. Raccomando subito al viaggiatore di seguire il Velino sino al piccolo lago detto di Piediluco.”

Gli “aranceti” ternani
Terni attende i visitatori poche miglia più in basso, nella valle; l’attuale capoluogo di provincia risulta già all’epoca una città di medie dimensioni che viene curiosamente preceduta dalla fama dei suoi aranceti per cui alcuni viaggiatori si mettono alla ricerca dei pregiati frutti, lodandone poi la bontà (alcuni inglesi, tra cui il Richards, addirittura paragonano la pianura circostante al Paradise Lost di Milton), mentre altri si affannano a smentire questa voce. Il celebre marchese De Sade dirà apertamente che: “..è falso che nella pianura vi siano alberi di arancio..”
Neppure il Goethe ( che di paesi degli aranci se ne intende..) ne fa riferimento, ma così la descrive, brevemente: “... la cittadina è in una posizione ridente, che ho ammirato con piacere, in un giro fatto ora. Si trova al principio di una bella pianura, fa monti di roccia calcarea. Come Bologna dalla parte opposta, così Terni al di qua si stende ai piedi di una catena di monti..”.
E’ interessante ricordare anche un’altra caratteristica del territorio ternano, osservata dal Goethe, così come da altri visitatori, ovvero la presenza costante di olivi nel paesaggio.
Johann Caspar Goethe, padre del celebre poeta, recatosi a Terni nel 1740, parlando della vanagloria dei suoi cittadini rispetto all’origine antica del luogo, afferma che: “...i cittadini (...) dicono che i primi fondamenti ne sono stati gettati da Numa Pompilio....”.
La poetessa inglese Anna Miller invece, nel 1771 ne descrive le glorie passate, e ci lascia la testimonianza di alcune perle archeologiche, e dei luoghi ove si trovano: “... nel giardino del vescovo, ove c’é un anfiteatro e alcuni sotterranei, nella chiesa di S. Salvatore ci sono alcuni esigui resti di un tempio del sole, e parte di un tempio di Ercole nelle celle dei Gesuiti…”

Il ponte d’Augusto nell’immaginario dei viaggiatori
Il tragitto che da Terni porta a Narni passa irrimediabilmente per il Ponte Romano (o d’Augusto), l’opera dell’epoca classica maggiormente apprezzata dai nuovi pellegrini: più volte dipinto (Corot, tra gli altri), e quindi riprodotto in stampe da appendere all’interno delle proprie case. L’opera è l’oggetto dell’ammirazione dei viaggiatori soprattutto per la sua altezza, ma essa offre lo spunto anche per ardite ipotesi circa la sua forma originaria, per cui si formano due partiti di storici dell’arte: quelli che ipotizzano tre navate e chi ne immagina quattro ( a dire il vero quest’ultima ipotesi meno accreditata), per cui non è raro ritrovare nelle descrizioni vere e proprie dichiarazioni di fede per l’una o l’altra tesi.
Alcuni turisti sono inoltre a conoscenza dell’antico percorso della Flaminia, e sanno che proprio quel ponte aveva lo scopo di collegare Narni ad un altro sito romano importantisimo per l’epoca, in via di scavo proprio a metà del ‘700: Carsulae, di cui però pochissimi viaggiatori lasciano descrizioni.
L’inglese Addison cita (questa volta correttamente) addirittura un epigramma di Marziale per sottolinearne l’importanza in epoca antica, e così ne parla: “...è una delle più imponenti rovine d’Italia..”.
Anche il Marchese De Sade, che trascorre molti giorni a Narni, descrivendone anche la cattedrale ed il centro urbano, lo trova bellissimo e si dilunga a descriverne le fattezze e a confrontarlo con il piccolo ponte medievale accanto ad esso.

Ocriculum
Ultima stazione lungo la Flaminia prima del Lazio, e dell’agognata Roma, è Otricoli, l’antica Ocriculum. Mentre la città moderna passa praticamente inosservata, l’attenzione dei viaggiatori si dirige verso i resti dell’antica città romana, i cui scavi erano ancora in corso nel ‘700, e quindi tanto più interessante agli occhi di molti artisti con velleità di archeologi.
Già l’Addison parla dei “....segni della sua antica magnificenza..” citandone i frammenti di opere, marmo ed altro. L’abate Jérome Richard la visita nel 1762 e così la descrive: “...la città di Ocriculum costruita con magnificenza, lo si giudica dalle rovine del teatro ed altri edifici pubblici, che sono a ponente della città...”
Il marchese De Sade ci spiega anche il perché del trasporto di alcuni monumenti da Ocriculum alla Villa Albani a Roma ( tra cui la celebre testa del Giove): “...il miglior frammento è stato portato a Villa Albani, dato che il Cardinale Albani è il protettore di Otricoli..”.
Alle spalle di Otricoli inizia il Lazio, e quindi Roma, meta finale del viaggio.

I percorsi e le tappe alternative
Tra i turisti (soprattutto inglesi) che preferiscono giungere a Roma percorrendo la antica Via Francigena, ovvero l’asse Via Aurelia - Via Cassia, la Toscana gioca un ruolo predominante.
I viaggiatori dell’800 allargano il loro sguardo, alla ricerca di nuove strade da solcare, ed in questo secondo scorcio di Grand Tour l’Umbria subentra nella parte finale di tale percorso, proprio prima di entrare nel Lazio da Viterbo: essi sono fatalmente attratti da Orvieto e le zone circostanti: il Lago di Corbara in primo luogo, mentre pochi altri si addentreranno lungo la strada che congiunge la città del Duomo ad Amelia, alla ricerca di ulteriori testimonianze romane.
Orvieto dunque, ed in questo caso il passato da scoprire è preferibilmente quello etrusco, ma il grandioso Medioevo della città non passa qui inosservato: dal tufo emerge possente il Duomo del Maitani e di Simone Martini, vera oasi dell’arte pittorica, così legato alla Toscana nelle sue forme esterne che rimandano all’amata Siena.
Karl Gottfried Pfannschmidt, artista amato dagli scrittori romantici, riporta nel 1845 queste impressioni di Orvieto: “...la prima passeggiata si orientò verso il Duomo, che, nella sua superba bellezza, ci fece una straordinaria impressione al pensiero che un’opera di tale perfezione potesse essere compiuta da una sola cittadina. Più lo si guarda, più diventa specchio del cielo, porta della città...”
Altro punto d’attrazione, questa volta paesaggistica, della zona è senza dubbio la valle del Tevere con il Lago di Corbara.
Per Jacques Camille Broussole, una voce lirica segnata dal tempo in cui scrive, il tardo ‘800, “...altre valli, altre colline si ripetono in lontananza, come un’eco, quasi all’infinito, e le ultime note sono ancora le più belle che si perdono nel mistero delle luci rosate e meravigliosamente addolcite..”
L’inglese William Davies, altra voce di letterato sulle orme del Grand Tour classico, lascia, invece, la propria testimonianza nell’opera “The pilgrimage of the Tiber from its source” (1873), ponendo particolare attenzione al fiume sacro ai romani: “... il Tevere incastrato nel lussureggiante fogliame, tratti di cielo azzurro si riflettevano tra gli argini (...) La scena era infinitamente varia: verdi di ogni tono e sfumatura, gruppi di alberi ondeggianti, cime dominanti, colline ondulate punteggiate da ville e fattorie...”

 

 
 
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